Alessandro Tasinato
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Il culto dei luoghi in-culti

Nasce il Rabiosa Festival

14/9/2021

 

Il Rabiosa Festival è un progetto culturale itinerante che nasce per dare voce al fiume Rabiosa (oggi chiamato Fratta-Gorzone) e alle varie realtà (cittadini, aziende, imprese, agricoltori, associazioni, comuni) che vogliano farsi parte attiva per il risanamento del fiume.
L’obiettivo è mettere in rete le conoscenze storico-ambientali che caratterizzano la Bassa Padovana, prendendo spunto dalla bellezza che sopravvive lungo gli argini o su certi angoli della campagna ma allo stesso tempo riconoscendone alcune contraddizioni, come l’inquinamento stesso delle acque, che vanno risolte per garantirci un futuro.

 

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Il Rabiosa Festival si propone di coinvolgere tutti coloro che hanno radici nel territorio e non sono disposti a s-radicarsi. E’ un festival indipendente, dedicato a chi desidera essere riabilitato nelle proprie capacità decisionali, nell’essere propulsore di una propria iniziativa per il risanamento del fiume. A chi non vuole essere semplicemente uno spettatore.

Un festival per guarire la ferita delle acque della Bassa Padovana

12/9/2021

 
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Il Mattino di Padova, 11 luglio 2021

Si è chiusa qualche settimana fa la quinta edizione del “Festival delle Basse”, una tre giorni di eventi che definire una “manifestazione culturale” è riduttivo. Il Festival delle Basse, infatti, è molto, molto di più.
Primo. Perché è l’unico Festival che rimette al centro la Bassa Padovana nella sua interezza. Intendo dire quei luoghi magnificamente ritratti dalla carta catastale di metà Cinquecento conservata al Museo Camillo Corrain di Stanghella e che la Serenissima non lesinava a definire in-culti. Il Festival, col livello dei suoi numerosissimi artisti, ha riabilitato la Bassa da quella sorta di indelebile, scomoda etichetta.
Secondo. Perché punta alla bellezza. Quella tipica, nostra, che sopravvive lungo gli argini, i canali, di fronte alle macchine idrovore, presso chiesette o ville semidisperse e misconosciute.
Terzo. Perché attraverso la formula itinerante – scelta in quest’ultima edizione – ha lavorato in maniera diffusa, partecipata, incentivando la costruzione di un’importantissima rete di luoghi e persone. Un valore alto, inedito per il nostro territorio, il cui conseguimento – niente affatto scontato – passa anche attraverso numerose rinunce a certi protagonismi da parte dei singoli. Grazie, quindi, a questo Festival e a tutti coloro che continuano a renderlo una realtà.
Ma il Festival quest’anno va ringraziato anche per essere stato (inconsapevolmente, magari) la cartina tornasole di una forte contraddizione, anch’essa tipica del territorio. Esplosa nel momento in cui il Festival – giustamente – ha scelto l’acqua quale filo conduttore del proprio itinerario.
Quei coloratissimi pesci, disegnati dalla mano artistica di Mirko Artuso e che dagli esordi del Festival ne costituiscono l’immancabile logo, sono ahinoi gli stessi pesci che – nella disincantata realtà dei fiumi, fossi e canali – il Presidente della Regione Veneto ha vietato di consumare a causa delle sostanze inquinanti chiamate PFAS. (Il divieto di consumo del pesce pescato vige tuttora su sei dei dieci comuni che il Festival l’hanno ospitato).
Ancora. La falda che scorre nel sottosuolo è la stessa per la quale il 1 luglio a Vicenza si è aperto il maxi processo per il più grande disastro ambientale d’Europa.
Infine, è sempre il bacino del fiume Fratta Gorzone, contaminato dal tubo che a Cologna Veneta, per volontà della Regione, continua a scaricare i reflui del distretto conciario di Chiampo Arzignano, a fornire l’acqua agli agricoltori i cui prodotti sono stati eletti dal Festival a “straordinario patrimonio di tipicità e qualità”.
Verrebbe da dire che non è vero. Che è tutto falso. Che questa enorme ferita non c’è.
 
Eppure, è proprio la cultura che dovrebbe darci una mano per cominciare a guardarla, questa ferita. Superando il male e la paura che fa. In che modo? Paradossalmente è proprio il Festival delle Basse a indicarci la direzione: lavorando in modo diffuso, partecipato, rafforzando la rete degli abitanti radicati e non disposti a s-radicarsi. Ma anche (questo dovrebbe costituire un impegno) investendo in formazione. Servono strumenti di conoscenza e comprensione, un programma di supporto a quei comuni, a quei cittadini, a quelle aziende (in primis gli agricoltori) che desiderano essere riabilitati nelle proprie capacità decisionali, nell’essere propulsori di una propria iniziativa che curi le ferite che abbiamo.
Oggi le acque della Bassa Padovana sono ostaggio di un Accordo di Programma sottoscritto da 31 soggetti tra enti pubblici e rappresentanti del distretto conciario volto a salvaguardare gli interessi di quest’ultimi piuttosto che al risanamento del Fratta Gorzone. Riscrivere il testo di quell’Accordo, esserne noi stessi gli autori per rimettere al centro la Bassa quale area storicamente violata (e perciò non ulteriormente violabile) è il primo passo per guardare a quella ferita e iniziare a curarla. E’ un percorso tutto da creare, una sorta di festival da celebrarsi tutti i giorni dell’anno, con un ruolo diverso da quello di spettatori.

Un sesto di Universo Elegante. 

17/2/2016

 
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​“L’Universo elegante
” è il titolo di un saggio di Brian Greene pubblicato in Italia da Einaudi di cui possiedo un’edizione del 2006. Ogni anno cerco di superare la sessantatreesima pagina, quella che introduce al paragrafo sulla “curvatura del tempo”, ma pare che qui sia destinata ad arenarsi la mia capacità di comprensione. Il libro di pagine ne ha quattrocento e se riuscissi ad arrivare alla fine probabilmente mi sentirei anch’io soddisfatto delle “dimensioni nascoste” che ha l’Universo e saprei meglio comprendere questa benedetta “teoria ultima” (così si legge nel sottotitolo) di cui i fisici sono andati alla ricerca in questi ultimi anni e di cui la registrazione delle onde gravitazionali - avvenuta lo scorso settembre negli osservatori di Livingston (Louisiana) e Hanford (Washington) e confermata ufficialmente i giorni scorsi - costituisce, se ho ben capito, la prova effettiva.
Quello che ho compreso nel primo – e sino ad oggi unico – sesto del libro basta a riempirmi la testa. Ogni volta tento di ripetermi ciò che ho capito ma ho la sensazione di inciampare. Ad ogni modo c’è un qualcosa che comunque mi è rimasto. Tento di dirvelo, a vostro rischio e pericolo.

Che cos’è la Realtà? Normalmente confondiamo la Realtà con ciò che i nostri sensi o le nostre capacità ci consentono di rappresentare. Ma quella è appunto soltanto la sua rappresentazione. Un esempio banale: un pittore che dipinge un paesaggio ha a disposizione una tela. Tutto va bene quando si trova a disegnare la facciata di una casa la quale, al pari della tela, ha soltanto due dimensioni: altezza e lunghezza. Qualche problema invece vien fuori quando si tratta di dare spessore alla casa o di inserire la profondità dello spazio che la separa dalle montagne all’orizzonte: qui le dimensioni cominciano a essere tre, la tela continua ad averne soltanto due e il pittore deve pertanto ricorrere ad un artifizio che è la prospettiva. Decisamente peggio, anzi un disastro, quando il pittore decide di rappresentare il modo in cui il paesaggio varia nel tempo. Qui, con una tela soltanto, non ce la fa. Eppure il tempo fa parte della Realtà di quel paesaggio – ci mancherebbe! – ma il pittore non ha sufficienti “strumenti” per rappresentarlo.

La fisica moderna sino ad oggi si è (ma, dopo la grande notizia di questi giorni, è il caso di dire “si era”) divisa in due categorie di pittori: i fisici che avevano strumenti adeguati a dipingere oggetti grandi e pesanti come stelle e galassie e quelli che avevano strumenti più adatti a dipingere oggetti piccoli e leggeri come molecole e atomi. Queste due categorie di pittori facevano egregiamente il loro mestiere, ma in modo rigorosamente distinto in quanto la tela usata dagli uni non poteva essere usata dagli altri e viceversa. Erano strumenti che presentavano diversi profili di incompatibilità, il che costituiva un grosso limite se si pensa che, stelle e galassie, molecole e atomi, fanno parte a tutti gli effetti della stessa Realtà. Ed ecco che la “teoria ultima” fornisce una nuova tipologia di tela, uno strumento che può essere usato adeguatamente da entrambi. La registrazione delle onde gravitazionali – ci viene detto – costituisce la prova del nove di questa teoria, il fatto cioè che la nuova tela veramente funziona ed è adeguata a rappresentare la Realtà a tutte le scale.

Ora, ci si chiede quante e quali dimensioni può contenere questa bellissima tela con la quale l’Uomo potrà – per i prossimi anni – dare la propria e più onesta versione della Realtà. Il libro di Brian Greene costa solo 13 euro e non posso che augurare a chi vuole una lettura che vada oltre il primo sesto del libro. Io questa tela me la immagino un po’ come Greene lo suggerisce, una dimensione curvilinea dello spazio-tempo, un Universo che in un certo senso fa le pieghe.
In questi giorni è stato ricordato come alla morte di un suo collaboratore nonché strettissimo amico, Albert Einstein scrisse un commovente messaggio di cordoglio alla sorella di questi. «Cara Signora» – scrive Einstein – «Michele è partito da questo strano mondo poco prima di me, ma noi, che lavoriamo nella Fisica, sappiamo che il prima e il dopo non esistono, sono soltanto una nostra cocciuta illusione». Einstein, che un secolo fa aveva teorizzato le onde gravitazionali di cui abbiamo appena avuto una conferma empirica, aveva ben chiaro cosa intendeva con quel messaggio e cosa fosse esattamente la dimensione curvilinea dello spazio-tempo. Io mi devo sforzare, ma è un sforzo che oggi sento necessario, imprescindibile.
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Se la scienza punta a conoscere la Realtà e la religione a conoscere la Verità, allora credo che mai come in questa circostanza il bisogno di scienza sia stato così vicino al bisogno di Dio.
Qualche tempo fa, un’amica di famiglia poco più che cinquantenne si è malata di Alzhaimer. I medici le hanno le fatto una diagnosi irreversibile, incasellando la nostra amica tra le affette di questa patologia. Ecco, quando penso a quella persona, alla sua patologia, al suo disorientamento spazio-temporale, al fatto che dall’oggi al domani si possa perdere capacità, memoria e senno, non posso non immaginare che quella persona si sia rannicchiata in una di queste pieghe che fa l’Universo. E che il suo sia uno stato esistenziale semplicemente diverso, a me e a gli altri attualmente non accessibile. Stessa cosa quando penso al dolore (la morte di un figlio?) o al fatto che si debba prima o dopo sparire. Sparire? Gesù Cristo ha detto di no, Einstein in un certo senso pare dargli ragione. E io ho bisogno di credere, in questo caso ad entrambi.

Scrivere i luoghi in-culti: il blog

4/10/2015

 
Paludi, acquitrini, acque rintanate nelle bassure. Sono i luoghi in-culti per i quali la Repubblica Serenissima di Venezia istituisce nel XVI secolo un’apposita Magistratura. Luoghi incerti, marginali, difficilmente accessibili che l’uso di un determinato linguaggio comincia per la prima volta a definire, a delimitare, a censire.
Parole come cavare, svodare, sgarbare che compaiono negli atti coi quali i Procuratori ordinano di bonificare quei luoghi tracciano infatti un gergo, una modalità espressiva, una struttura comunicativa tesa a rafforzare l’idea per cui i luoghi in-culti vanno necessariamente rimossi.
Le bonifiche rappresentarono uno sforzo immane grazie al quale le acque furono fatte evacuare e produssero benefici oggi innegabili dal punto di vista del controllo e della gestione del territorio. Allo stesso tempo però la natura di quel linguaggio ha caratterizzato la relazione tra uomo e luoghi in-culti in modo netto, evocandone insistentemente l’antitesi, la contrapposizione, il conflitto.
Cavare, svodare, sgarbare i luoghi in-culti – del resto – non fa che rafforzare l’interpretazione (un’interpretazione che solo recentemente le parole di Mario Bergoglio[1] hanno inequivocabilmente definito “distorta”) del mandato biblico di soggiogare la terra[2], creando un riverbero di visioni che ha finito col rendere il conflitto coi luoghi in-culti uno schema ineluttabile, fatalmente predestinato, le cui ragioni hanno addirittura smarrito nel tempo il bisogno di essere spiegate.
 
Oggi, l’impalcatura verbale su cui tale conflitto si è intrepidamente sorretto nei secoli, assumendo in particolare nel corso dell’ultimo la forma esasperata di una vera e propria aggressione, è destinata a sbriciolarsi ad ogni alluvione.
Per una curiosa coincidenza (che tuttavia non ha nulla di casuale ma, anzi, trova la sua ragione nella modalità appunto aggressiva con cui l’uomo ha progressivamente soggiogato il nostro pianeta) sono proprio i luoghi cavati, svodati, sgarbati a mostrare il drammatico limite di un simile approccio. Sono le acque fatte ostinatamente evacuare che, restituite del loro prorompente vigore dagli eventi climatici estremi, tornano a rintanarsi nelle bassure, ritrasformando le terre bonificate in paludi e acquitrini.
 
In una topografia culturale continuamente ridisegnata dal linguaggio corrente, questo riscatto dei luoghi in-culti diventa il momento in cui anche secolari e consolidate visioni si capovolgono. Ed è curioso, da questo punto di vista, come i più recenti interventi di bonifica realizzati in risposta agli effetti dei cambiamenti climatici (la costruzione ad esempio di bacini di espansione lungo l’asta dei fiumi in cui le acque possano liberamente sfogare) abbiano sostituito alle parole d’ordine cavare, svodare, sgarbare quelle più morbide di defluire, scaricare, laminare, che oltre a evocare un approccio più equilibrato riconoscono alle acque la potestà di quei luoghi da cui furono fatte dogmaticamente evacuare.
 
Ho frequentato i luoghi in-culti sin dalla mia giovinezza. Paludi e acquitrini della Bassa Padovana miracolosamente scampati alle bonifiche. Acque stagnanti così rintanate nelle bassure che nessuna opera idraulica, in mezzo millennio, era riuscita a fare evacuare. E abitando quei luoghi – stagione dopo stagione, anno dopo anno – ho imparato a muovermi dentro, a esplorarli, a divenire un loro abitante. Guardando, ascoltando, all’inizio scrivendo sporadici appunti, poi con l’intento sempre più chiaro di dovermene prendere cura: raccontandoli, scrivendo il perché della loro importanza, spiegando quanto nella realtà la loro posizione fosse centrale. L’ho fatto in racconti, in articoli, in un'indagine narrativa che sta pazientemente attendendo il suo editore.
 
Scrivere i luoghi in-culti significa destrutturare il linguaggio delle "Magistrature". E questo non solo quando si tratta di luoghi fisici o geografici in senso stretto. Bensì quando si affrontano situazioni, contesti, condizioni della vita contemporanea difficilmente inquadrabili in un’ottica di mero profitto, emarginate da quei meccanismi di controllo e gestione che hanno nell’economia il proprio esclusivo parametro. "Luoghi" - chiamiamoli metaforicamente appunto così - che dal punto di vista sociale, economico, produttivo restano ai margini e che non sono mai adeguatamente esplorati dalla comunicazione mediatica istantanea, superficiale, sempre più simile a quella dei tweet. E quindi luoghi che, coi loro abitanti, corrono il rischio di essere cavati, svodati, sgarbati.
Ritengo che scegliere con attenzione e delicatezza il linguaggio più adatto con cui definirli, delimitarli, censirli sia qualcosa di più di un approccio protezionista. È il presupposto per conoscere il messaggio che i luoghi in-culti (tutti, i luoghi in-culti) contengono, sulla base del quale tracciare la nostra, più consapevole, modernità.


[1] Lettera Enciclica Laudato Sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune - paragrafo 66, pagg. 52, 53 – Roma, 24 Maggio 2015.
[2] cfr. Gen
 1, 28

© 2016 – Il culto dei luoghi in-culti - www.alessandrotasinato.com
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