IL FIUME SONO IO: il progetto di un'indagine narrativa sul fiume che ha perso il suo nome
"Nino Franzin ha vissuto la giovinezza in simbiosi con la Rabiosa, il fiume mortalmente inquinato dal distretto conciario di Chiampo-Arzignano e poi interessato dal cantiere dell’Autostrada Valdastico Sud. Gli studi, la laurea, il miraggio di un’importante carriera lo costringono a dare al fiume le spalle. Sarà la vita di un piccolo embrione a fargli incontrare il fiume di nuovo. La Rabiosa, come il più solido degli spessori che compongono la stratigrafia della sua anima, era semplicemente sepolta da inconsistenti impurezze, che un’alluvione asporterà".
La Rabiosa raccoglie le acque dai Monti Lessini e le distribuisce nella Bassa Padovana attraverso una rete complessa di canali e di fossi.
Il nome di questo fiume compare nella cartografia a partire dal XVI secolo. Ne sono testimonianza una pergamena conservata presso la Biblioteca Civica di Verona, una carta redatta da Domenico de Rossi nel 1568 e conservata presso la Biblioteca del Museo Correr di Venezia e, più tardi, una rappresentazione della rete idrografica del 1747 di Giovanni Pinali conservata presso l’Archivio Storico Comunale di Montagnana.
La parola Rabiosa però ad un certo punto scompare, tanto che oggi è sistematicamente omessa dalle etichette di Google Maps.
Il nome di questo fiume compare nella cartografia a partire dal XVI secolo. Ne sono testimonianza una pergamena conservata presso la Biblioteca Civica di Verona, una carta redatta da Domenico de Rossi nel 1568 e conservata presso la Biblioteca del Museo Correr di Venezia e, più tardi, una rappresentazione della rete idrografica del 1747 di Giovanni Pinali conservata presso l’Archivio Storico Comunale di Montagnana.
La parola Rabiosa però ad un certo punto scompare, tanto che oggi è sistematicamente omessa dalle etichette di Google Maps.
Scopo di questa indagine narrativa è ricercare il perché di questa scomparsa. L’idea iniziale era quella di una ricerca prettamente storico-ambientale che avrebbe dovuto condurre alla stesura di un saggio. Una formazione trasversale come quella che avevo ereditato dalle Scienze Ambientali e l’esperienza maturata nella valutazione degli impatti delle attività industriali a Porto Marghera mi avevano persuaso di avere adeguati strumenti per condurre questo tipo di indagine. Del resto, le bonifiche del Cinquecento e dell’Ottocento, l’urbanizzazione che ha reso il Veneto un’area metropolitana diffusa, l’inquinamento prodotto dal distretto conciario di Chiampo e Arzignano che aveva ridotto la Rabiosa a una tomba, erano state senz’altro le cause di una lenta e inesorabile perdita di identità da parte del fiume. Ero convinto che avrei senz’altro saputo tecnicamente esplorarle.
Tuttavia, mano a mano che il materiale da me raccolto si infittiva di studi, di libri, di cartografie, di relazioni sull’impatto generato dall’industria conciaria sulla qualità delle acque, di dati relativi ai monitoraggi ambientali sulla Rabiosa e delle informazioni raccolte nel corso di numerose interviste (essendo le fonti orali da me considerate alla stregua di altre preziosissime fonti) ho avuto l’impressione che un saggio non avrebbe potuto bastare.
La rilettura di un articolo, The framing wars, pubblicato il 17 Luglio 2005 sul The New York Times Magazine[3] e un viaggio nel 2009 in Madagascar, sono stati infine gli stimoli decisivi che mi hanno indotto a un cambio di rotta nei miei propositi e a far sì che mi decidessi a inserire nel testo un tessuto narrante che prima mancava.
La teoria del framing è stata elaborata da George Lakoff, professore di linguistica e scienze cognitive a Berkeley e spiega che la natura del linguaggio – come lo usiamo e perché è così persuasivo – è collegata al funzionamento della mente e al modo con cui certe parole rafforzano la cornice in cui è inserita una determinata visione del mondo.
Mentre scrivevo le mie prime bozze di quello che doveva essere un saggio, mi ero accorto di quanto fosse stato pregnante, sin dal Cinquecento, l’uso della parola in-culti. Era l’appellativo con cui venivano indicate le zone in cui la Rabiosa aveva naturalmente il suo libero sfogo. Luoghi paludosi, acquitrinosi, dominati dalle libere acque. La Repubblica Serenissima aveva istituito per i luoghi in-culti un’apposita Magistratura che aveva il compito di provvedere ad una loro radicale trasformazione, consistente fondamentalmente nel prosciugamento delle terre, nella sottrazione delle acque e nella conversione dei luoghi in-culti a luoghi finalmente c(u)ltivabili, da cui trarre ovviamente profitto.
Era in questa dinamica – mi resi conto – nella lotta ai luoghi in-culti cioè, che andava ricercata la ragione della progressiva scomparsa della parola Rabiosa. Ed era sempre attraverso la lotta ai luoghi in-culti (una lotta semantica, innanzitutto) che da cinquecento anni in Veneto si era andata rafforzando quella visione del mondo per cui i luoghi in-culti devono essere inequivocabilmente sfruttati.
Il viaggio in Madagascar, la terra del fady, l’idea cioè per cui i luoghi in-culti sono sede della selvatichezza ma anche il posto in cui sono ospitati gli spiriti degli antenati e perciò luoghi che non devono neppure idealmente essere toccati (“il culto dei luoghi in-culti” – verrebbe da dire) non poteva che esasperare dentro di me la necessità di invertire questa tendenza che era stata alla base di una costrizione delle acque che durava da mezzo millennio.
Nino Franzin, protagonista di quella che mi sento di definire un'indagine narrativa con la quale alla fine ho più opportunamente perseguito l’obiettivo di questo progetto, si inoltra perciò in una nuova e più avventurosa ricerca che investe la “topografia culturale” nel suo complesso.
E’ un personaggio che pur appartenendo a tale topografia, trova ad un certo punto la forza di uscirne, di guardarla da fuori, di provare a ridisegnarla ex novo. La ricerca dei luoghi in-culti, la ricerca dei luoghi in-culti in senso lato cioè, diventa per lui un percorso obbligato attraverso il quale allargare una determinata e consolidata visione del mondo.
La sua è perciò una quotidiana battaglia semantica – la sua framing war appunto – contro le narrazioni che fanno salire o scendere la percezione della realtà in un’altalena di significati di volta in volta sfruttati per esercitare persuasione e controllo. Una battaglia che investe lo spazio pubblico e quello privato, la dimensione politica e quella domestica, il contesto lavorativo e quello affettivo.
L'indagine narrativa ha richiesto un periodo di raccolta e elaborazione dati durato circa dieci anni.
[1] Immagine dall'Archivio Storico Comunale di Montagnana.
[2] Immagine dal volume "I Colli Euganei" - Parco Regionale dei Colli Euganei, pagg. 254 - 255.
[3] Matt Bai “The framing wars” – The New York Times Magazine, 17 Luglio 2005. Tradotto in Italiano su Internazionale del 24 Febbraio 2006, n.630.
[4] Immagine dal volume "I Colli Euganei" - Parco Regionale dei Colli Euganei, pagg. 256 - 257.
Il viaggio in Madagascar, la terra del fady, l’idea cioè per cui i luoghi in-culti sono sede della selvatichezza ma anche il posto in cui sono ospitati gli spiriti degli antenati e perciò luoghi che non devono neppure idealmente essere toccati (“il culto dei luoghi in-culti” – verrebbe da dire) non poteva che esasperare dentro di me la necessità di invertire questa tendenza che era stata alla base di una costrizione delle acque che durava da mezzo millennio.
Nino Franzin, protagonista di quella che mi sento di definire un'indagine narrativa con la quale alla fine ho più opportunamente perseguito l’obiettivo di questo progetto, si inoltra perciò in una nuova e più avventurosa ricerca che investe la “topografia culturale” nel suo complesso.
E’ un personaggio che pur appartenendo a tale topografia, trova ad un certo punto la forza di uscirne, di guardarla da fuori, di provare a ridisegnarla ex novo. La ricerca dei luoghi in-culti, la ricerca dei luoghi in-culti in senso lato cioè, diventa per lui un percorso obbligato attraverso il quale allargare una determinata e consolidata visione del mondo.
La sua è perciò una quotidiana battaglia semantica – la sua framing war appunto – contro le narrazioni che fanno salire o scendere la percezione della realtà in un’altalena di significati di volta in volta sfruttati per esercitare persuasione e controllo. Una battaglia che investe lo spazio pubblico e quello privato, la dimensione politica e quella domestica, il contesto lavorativo e quello affettivo.
L'indagine narrativa ha richiesto un periodo di raccolta e elaborazione dati durato circa dieci anni.
[1] Immagine dall'Archivio Storico Comunale di Montagnana.
[2] Immagine dal volume "I Colli Euganei" - Parco Regionale dei Colli Euganei, pagg. 254 - 255.
[3] Matt Bai “The framing wars” – The New York Times Magazine, 17 Luglio 2005. Tradotto in Italiano su Internazionale del 24 Febbraio 2006, n.630.
[4] Immagine dal volume "I Colli Euganei" - Parco Regionale dei Colli Euganei, pagg. 256 - 257.