Scrivere i luoghi in-culti : il blog
Paludi, acquitrini, acque rintanate nelle bassure. Sono i luoghi in-culti per i quali la Repubblica Serenissima di Venezia istituisce nel XVI secolo un’apposita Magistratura. Luoghi incerti, marginali, difficilmente accessibili che l’uso di un determinato linguaggio comincia per la prima volta a definire, a delimitare, a censire.
Parole come cavare, svodare, sgarbare che compaiono negli atti coi quali i Procuratori ordinano di bonificare quei luoghi tracciano infatti un gergo, una modalità espressiva, una struttura comunicativa tesa a rafforzare l’idea per cui i luoghi in-culti vanno necessariamente rimossi.
Le bonifiche rappresentarono uno sforzo immane grazie al quale le acque furono fatte evacuare e produssero benefici oggi innegabili dal punto di vista del controllo e della gestione del territorio. Allo stesso tempo però la natura di quel linguaggio ha caratterizzato la relazione tra uomo e luoghi in-culti in modo netto, evocandone insistentemente l’antitesi, la contrapposizione, il conflitto.
Cavare, svodare, sgarbare i luoghi in-culti – del resto – non fa che rafforzare l’interpretazione (un’interpretazione che solo recentemente le parole di Mario Bergoglio[1] hanno inequivocabilmente definito “distorta”) del mandato biblico di soggiogare la terra[2], creando un riverbero di visioni che ha finito col rendere il conflitto coi luoghi in-culti uno schema ineluttabile, fatalmente predestinato, le cui ragioni hanno addirittura smarrito nel tempo il bisogno di essere spiegate.
Oggi, l’impalcatura verbale su cui tale conflitto si è intrepidamente sorretto nei secoli, assumendo in particolare nel corso dell’ultimo la forma esasperata di una vera e propria aggressione, è destinata a sbriciolarsi ad ogni alluvione.
Per una curiosa coincidenza (che tuttavia non ha nulla di casuale ma, anzi, trova la sua ragione nella modalità appunto aggressiva con cui l’uomo ha progressivamente soggiogato il nostro pianeta) sono proprio i luoghi cavati, svodati, sgarbati a mostrare il drammatico limite di un simile approccio. Sono le acque fatte ostinatamente evacuare che, restituite del loro prorompente vigore dagli eventi climatici estremi, tornano a rintanarsi nelle bassure, ritrasformando le terre bonificate in paludi e acquitrini.
In una topografia culturale continuamente ridisegnata dal linguaggio corrente, questo riscatto dei luoghi in-culti diventa il momento in cui anche secolari e consolidate visioni si capovolgono. Ed è curioso, da questo punto di vista, come i più recenti interventi di bonifica realizzati in risposta agli effetti dei cambiamenti climatici (la costruzione ad esempio di bacini di espansione lungo l’asta dei fiumi in cui le acque possano liberamente sfogare) abbiano sostituito alle parole d’ordine cavare, svodare, sgarbare quelle più morbide di defluire, scaricare, laminare, che oltre a evocare un approccio più equilibrato riconoscono alle acque la potestà di quei luoghi da cui furono fatte dogmaticamente evacuare.
Ho frequentato i luoghi in-culti sin dalla mia giovinezza. Paludi e acquitrini della Bassa Padovana miracolosamente scampati alle bonifiche. Acque stagnanti così rintanate nelle bassure che nessuna opera idraulica, in mezzo millennio, era riuscita a fare evacuare. E abitando quei luoghi – stagione dopo stagione, anno dopo anno – ho imparato a muovermi dentro, a esplorarli, a divenire un loro abitante. Guardando, ascoltando, all’inizio scrivendo sporadici appunti, poi con l’intento sempre più chiaro di dovermene prendere cura: raccontandoli, scrivendo il perché della loro importanza, spiegando quanto nella realtà la loro posizione fosse centrale. L’ho fatto in racconti, in articoli, in un'indagine narrativa che sta pazientemente attendendo il suo editore.
Scrivere i luoghi in-culti significa destrutturare il linguaggio delle "Magistrature". E questo non solo quando si tratta di luoghi fisici o geografici in senso stretto. Bensì quando si affrontano situazioni, contesti, condizioni della vita contemporanea difficilmente inquadrabili in un’ottica di mero profitto, emarginate da quei meccanismi di controllo e gestione che hanno nell’economia il proprio esclusivo parametro. "Luoghi" - chiamiamoli metaforicamente appunto così - che dal punto di vista sociale, economico, produttivo restano ai margini e che non sono mai adeguatamente esplorati dalla comunicazione mediatica istantanea, superficiale, sempre più simile a quella dei tweet. E quindi luoghi che, coi loro abitanti, corrono il rischio di essere cavati, svodati, sgarbati.
Ritengo che scegliere con attenzione e delicatezza il linguaggio più adatto con cui definirli, delimitarli, censirli sia qualcosa di più di un approccio protezionista. È il presupposto per conoscere il messaggio che i luoghi in-culti (tutti, i luoghi in-culti) contengono, sulla base del quale tracciare la nostra, più consapevole, modernità.
[1] Lettera Enciclica Laudato Sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune - paragrafo 66, pagg. 52, 53 – Roma, 24 Maggio 2015.
[2] cfr. Gen 1, 28
Parole come cavare, svodare, sgarbare che compaiono negli atti coi quali i Procuratori ordinano di bonificare quei luoghi tracciano infatti un gergo, una modalità espressiva, una struttura comunicativa tesa a rafforzare l’idea per cui i luoghi in-culti vanno necessariamente rimossi.
Le bonifiche rappresentarono uno sforzo immane grazie al quale le acque furono fatte evacuare e produssero benefici oggi innegabili dal punto di vista del controllo e della gestione del territorio. Allo stesso tempo però la natura di quel linguaggio ha caratterizzato la relazione tra uomo e luoghi in-culti in modo netto, evocandone insistentemente l’antitesi, la contrapposizione, il conflitto.
Cavare, svodare, sgarbare i luoghi in-culti – del resto – non fa che rafforzare l’interpretazione (un’interpretazione che solo recentemente le parole di Mario Bergoglio[1] hanno inequivocabilmente definito “distorta”) del mandato biblico di soggiogare la terra[2], creando un riverbero di visioni che ha finito col rendere il conflitto coi luoghi in-culti uno schema ineluttabile, fatalmente predestinato, le cui ragioni hanno addirittura smarrito nel tempo il bisogno di essere spiegate.
Oggi, l’impalcatura verbale su cui tale conflitto si è intrepidamente sorretto nei secoli, assumendo in particolare nel corso dell’ultimo la forma esasperata di una vera e propria aggressione, è destinata a sbriciolarsi ad ogni alluvione.
Per una curiosa coincidenza (che tuttavia non ha nulla di casuale ma, anzi, trova la sua ragione nella modalità appunto aggressiva con cui l’uomo ha progressivamente soggiogato il nostro pianeta) sono proprio i luoghi cavati, svodati, sgarbati a mostrare il drammatico limite di un simile approccio. Sono le acque fatte ostinatamente evacuare che, restituite del loro prorompente vigore dagli eventi climatici estremi, tornano a rintanarsi nelle bassure, ritrasformando le terre bonificate in paludi e acquitrini.
In una topografia culturale continuamente ridisegnata dal linguaggio corrente, questo riscatto dei luoghi in-culti diventa il momento in cui anche secolari e consolidate visioni si capovolgono. Ed è curioso, da questo punto di vista, come i più recenti interventi di bonifica realizzati in risposta agli effetti dei cambiamenti climatici (la costruzione ad esempio di bacini di espansione lungo l’asta dei fiumi in cui le acque possano liberamente sfogare) abbiano sostituito alle parole d’ordine cavare, svodare, sgarbare quelle più morbide di defluire, scaricare, laminare, che oltre a evocare un approccio più equilibrato riconoscono alle acque la potestà di quei luoghi da cui furono fatte dogmaticamente evacuare.
Ho frequentato i luoghi in-culti sin dalla mia giovinezza. Paludi e acquitrini della Bassa Padovana miracolosamente scampati alle bonifiche. Acque stagnanti così rintanate nelle bassure che nessuna opera idraulica, in mezzo millennio, era riuscita a fare evacuare. E abitando quei luoghi – stagione dopo stagione, anno dopo anno – ho imparato a muovermi dentro, a esplorarli, a divenire un loro abitante. Guardando, ascoltando, all’inizio scrivendo sporadici appunti, poi con l’intento sempre più chiaro di dovermene prendere cura: raccontandoli, scrivendo il perché della loro importanza, spiegando quanto nella realtà la loro posizione fosse centrale. L’ho fatto in racconti, in articoli, in un'indagine narrativa che sta pazientemente attendendo il suo editore.
Scrivere i luoghi in-culti significa destrutturare il linguaggio delle "Magistrature". E questo non solo quando si tratta di luoghi fisici o geografici in senso stretto. Bensì quando si affrontano situazioni, contesti, condizioni della vita contemporanea difficilmente inquadrabili in un’ottica di mero profitto, emarginate da quei meccanismi di controllo e gestione che hanno nell’economia il proprio esclusivo parametro. "Luoghi" - chiamiamoli metaforicamente appunto così - che dal punto di vista sociale, economico, produttivo restano ai margini e che non sono mai adeguatamente esplorati dalla comunicazione mediatica istantanea, superficiale, sempre più simile a quella dei tweet. E quindi luoghi che, coi loro abitanti, corrono il rischio di essere cavati, svodati, sgarbati.
Ritengo che scegliere con attenzione e delicatezza il linguaggio più adatto con cui definirli, delimitarli, censirli sia qualcosa di più di un approccio protezionista. È il presupposto per conoscere il messaggio che i luoghi in-culti (tutti, i luoghi in-culti) contengono, sulla base del quale tracciare la nostra, più consapevole, modernità.
[1] Lettera Enciclica Laudato Sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune - paragrafo 66, pagg. 52, 53 – Roma, 24 Maggio 2015.
[2] cfr. Gen 1, 28